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Sapore di clinto (quarta parte)

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Aveva scoperto quel locale anni prima, girando di sera in compagnia di un suo ex commilitone: Gianni Cacino. Riflette brevemente sul fatto che, da tempo, non aveva più notizie dell'amico; poi lasciò perdere queste oziose, anche se dolci, considerazioni e tornò a riflettere sul caso Spagnolo.
Aveva immaginato che i due 'colombi' si separavano in centro. Del resto, ciò non voleva dire niente: è chiaro che Bruno non avrebbe portato Cinzia in un posto troppo vicino al luogo del suo impegno serale; da tutto ciò che aveva letto e saputo di lui, se lo figurava troppo furbo, anche perché nessuno, se non è più

che sveglio, riesce ad avere una doppia vita senza far nascere sospetti, insinuazioni e dicerie.
Era, ad essere onesti, una persona fin troppo perfetta per essere vera; checché ne pensasse Olcese, c'era un sacco di gente, a vent'anni, con l'armadio pieno di scheletri. Però molti avevano una vita ... 'non ufficiale' per poter stare con una donna, ma il misterioso Bruno non sembrava proprio un satiro; questo escludeva l'omicidio passionale compiuto da qualche marito geloso.
Intuì che il motivo della morte poteva essere legato alle sparizioni del giovane: se avesse scoperto cosa diavolo combinava in quelle sere, avrebbe, forse, potuto risalire al motivo ed all'autore dell'omicidio e della messinscena. Ma, d'altra parte: come diavolo occupava il tempo, quel disgraziato, nella sua seconda vita?
Passò in rassegna varie ipotesi: droga, per esempio; no, non era in carattere con il tipo, Cinzia aveva negato questa possibilità e, inoltre, il rapporto del perito settore affermava che, il caro estinto, non era dedito all'uso di stupefacenti di alcun tipo.
Gioco: probabile. In una serata si può fare un pokerino, per esempio, od una qualche altra dozzina di giochi d'azzardo; però ci si può perdere un capitale, se non si sa barare. Ma Bruno, oltre a non chiedere troppi soldi in casa, non gli sembrava il tipo del baro; e poi, per imparare, bisogna frequentare la gente 'giusta' per un pezzo.
Ma la vita del giovane era arcinota ai genitori ed a Cinzia e poi, in un paio di mesi di vita clandestina, è impossibile imparare tutte le sottigliezze dei bari. Quindi, niente partite truccate. Tra l'altro, per essersi fatto un bridge od una briscola, non è mai stato ammazzato nessuno, neppure facendo sballare un 'grande slam' ad un compagno collerico.
Doveva soldi a qualcuno: no, alla peggio una carrettata di botte, non direttamente la pelle!
Motivi politici: probabilmente non sapeva neanche qual'era il partito di maggioranza relativa; assolutamente no.
E' stato testimone di un reato: ma allora, perché andava per i fatti suoi, due volte alla settimana, da un paio di mesi a quella parte? Assurdo!
Giorgio 'sentiva' che il delitto era conseguenza di quel qualcosa che Bruno faceva quelle sere, che aveva fatto con altre persone; qualcosa di decisamente illegale, anche se il caro estinto, a tutta prima, non sembrava assolutamente il tipo per traffici del genere.
Irritato, studiò il bicchiere di vino che si era portato al tavolo: un qualsiasi 'gotto' da osteria, di vetraccio, con l'orlo scheggiato e con dentro ancora un po' di vino discretamente buono. Si sorprese a borbottare: "Gotto, amico del mio cuore trafitto, qual'é il perché di questo delitto?"
Ma il bicchiere, sornione, non rispose e lui ne bevve subito il contenuto. Sorrideva tra sé per la domanda fatta al bicchiere: era una cosa idiota, assolutamente idiota; come idiota era, anche, il fatto di impicciarsi in cose che non lo riguardavano per niente. Ma lui se ne infischiava di fare sempre cose furbe, perciò fece un sorriso complice al bicchiere, ormai desolantemente vuoto. Decise che le cantine della bettola non lo avrebbero aiutato a capire meglio quella storia; così lasciò cento lire sul tavolo, segnato dal lungo uso, ed uscì nella serata tiepida. Erano circa le dieci ed il cielo conservava ancora un residuo della luminosità del giorno.
Attraversò la strada ed aprì la portiera dell'auto, che era riuscito a parcheggiare di fronte all'osteria; si fermò un attimo, si accese una sigaretta e si sedette al volante.
Quando voleva riflettere in santa pace, come quella sera, prendeva la sua 127 ed andava a fare un giro in autostrada; era una di quelle rare persone, infatti, che riescono a rilassarsi guidando. Decise di prendere l'autostrada al casello di Genova-Est per dirigersi verso Livorno, perciò scostò l'auto dal marciapiede e raggiunse subito piazza Tommaseo, dove imboccò corso Buenos Aires; da quella strada svoltò in corso Torino e si fermò al doppio semaforo con via Tommaso Invrea e via Tolemaide.
Solo allora notò, nel retrovisore, una R5 bianca con tre persone a bordo. Gli parve di ricordare una macchina identica, con tre persone a bordo, che sostava davanti all'osteria, poco prima.
Sentì una sensazione di disagio colargli, gelata, lungo la spina dorsale e rabbrividì. Il cacciatore che, euforicamente, si sentiva prima, stava forse diventando preda? Si costrinse a pensare che era una combinazione, solo una stupida, banale, agghiacciante combinazione, che la strada era di tutti e che chiunque poteva andare dove accidenti gli pareva, percorrendo le stesse strade dove passava lui. Ma quella bestiolina schifosa, chiamata paura, continuava a ripetergli che le combinazioni non esistono, che quelli ce l'avevano con lui.
Il verde, scattato in quell'istante, lo distrasse parzialmente da questi funesti pensieri e ripartì ad andatura moderata, molto moderata. Il semaforo di piazza Giusti li rivide acccodati. Lui riflette che, in trecento metri, l'altra macchina avrebbe potuto (e dovuto!) superarlo.
La casualità della situazione stava naufragando nel mare del sospetto; i suoi sensi, a questo punto, erano tutti all'erta. Cristonò sommessamente: non riusciva a vedere le facce del terzetto sulla Renault. Quando, per l'altra corrente di traffico, il semaforo passò al giallo, Giorgio mandò leggermente su il motore, sui milleottocento giri, inserendo con la attenzione la prima. Considerava che, con una partenza a razzo, avrebbe finalmente potuto capire quali erano le reali intenzioni del terzetto.
Verde! Tutti i cavalli (vapore) dell'auto, vennero sferzati dall'accelerazione, in un breve stridìo di gomme ed in una nuvola di benzina bruciata.
All'altezza del mercato ortofrutticolo, quasi a metà di corso Sardegna, guardò nel retrovisore esterno: erano sempre dietro, distanti trenta metri, alla stessa velocità. Passò come una freccia al semaforo di via Don Orione, mentre scattava il giallo, e vide che la R5 era passata anche lei, probabilmente col rosso.
Aveva, ormai, capito che ce l'avevano con lui e, decise, la cosa era da mettere in relazione con la morte del ragazzo di Cinzia.
Chi sapeva che stava interessandosi a quella faccenda?
Olcese: no, era molto improbabile che lo facesse seguire; per farlo avrebbe dovuto rispondere a troppe domande decisamente imbarazzanti.
Titta: assolutamente no; d'accordo, non voleva che si occupasse di quella faccenda, ma oltre a questo, quale altro motivo avrebbe avuto? E poi, chi era quella gente?
Cinzia: era reticente, non voleva che indagasse e non lo aveva convinto per niente. Lui e la sua maledetta mania di impicciarsi dei casi altrui e di credere ciecamente agli amici! Se fosse riuscito a seminare il terzetto, sarebbe tornato da lei e l'avrebbe presa a ceffoni fino a che non spiegava tutto, e per bene.
Nel frattempo, percorrendo corso De Stefanis e via Clavarezza, era giunto davanti alle carceri, sempre tallonato dalla vettura bianca ad una decina di metri. Arrivato in fondo a piazzale Marassi, girò seccamente a destra, in via Montebruno, aiutandosi nella manovra con una strappata al freno a mano, data al momento più opportuno, e si infilò, successivamente, in certe anguste stradette, ma sempre dirigendosi verso l'autostrada.

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Nonostante l'agile manovra, vedeva sempre dietro di sé i fari rettangolari della Renault: non avevano la minima intenzione di farselo scappare; non solo: chi guidava era anche parecchio in gamba! Decise, visto il protrarsi dell'inseguimento e l'impossibilità di seminare l'altra auto, che si sarebbe difeso. Cercò, così, una robusta e pesante torcia elettrica che trovò subito a fianco del sedile. Nel frattempo, anziché svoltare a sinistra e raggiungere il casello autostradale, proseguì per Lungobisagno Istria, che a quell'ora era praticamente deserto.
Arrivato all'altezza di piazzale Adriatico, diminuì leggermente l'andatura, per far avvicinare l'altra auto: quando questa fu a circa cinque metri dalla 127, Giorgio sterzò bruscamente a sinistra, mollando di colpo l'acceleratore e tirando la leva del freno a mano.
La sua auto si fermò, rollando violentemente, perpendicolare alla carreggiata, sfiorata dall'altra vettura che decelerava bruscamente.
Poi l'R5 fece una rapida retromarcia e si accostò alla vettura di Giorgio, che era sceso brandendo la massiccia torcia elettrica. Scese anche un passeggero dall'altra auto; aveva un sorriso a trentadue denti che sembrava tagliargli in due la faccia. "Dì, pazzoide, devi dei soldi a qualcuno, che ti sei messo a correre così?"
Sentì di odiarlo. Pensò che lo avrebbe ammazzato. Aveva deciso che, se si avvicinava, gli dava la torcia in faccia, come minimo. Ma gli passò.
"Ciao, Gianni; pensavo proprio a te, stasera. Che ci fai qui?"
"Beh ... stavamo venendo all'osteria, quando ti abbiamo visto uscire; siamo rimasti in macchina perché volevo vedere se ti accorgevi di noi e, quando sei partito così di corsa, abbiamo deciso di seguirti un po'. Poi, in corso Sardegna, hai cominciato il rodeo e Angelo, che guidava, ha voluto starti dietro. Che cazzo avevi, da tirarci così, pensavi che volessimo pestarti?"
Giorgio sorrise. "Più o meno. Ho avuto un po' di spago ed ho cominciato a tirarci; comunque Angelo se la cava mica male: pensavo di perdervi dopo Marassi".
"Sai com'è: anche lui, come te, ha fatto un po' di rallye, tempo fa".
Giorgio fece un sorriso amaro; gli venne in mente la sua breve, ma splendida carriera di rallista, a cominciare dalla sua iniziazione, quasi dieci anni prima.
Nel collegio dove si trovava a frequentare la terza liceo, gli 'anziani' avevano organizzato un rallye tra loro; un suo carissimo amico, Paolo, correva con la sua A 112 e si era scelto, come secondo, un suo compagno di classe.
Avevano cominciato ad allenarsi ma, dieci giorni prima del via, il navigatore era stato ricoverato in ospedale per un attacco di appendicite. Così Paolo, un ragazzo magro, con un paio di occhiali spessi così e considerato, dai più, totalmente pazzo, gli aveva chiesto se voleva sostituire l'ammalato. Giorgio accettò.
In dieci giorni, Paolo fece di lui un navigatore all'altezza della situazione e, il giorno del via, Giorgio quasi piangeva dalla gioia mentre, legato dalla cintura di sicurezza e reso sordo dal casco, cominciava a far derapare l'auto in curva con tempistiche strappate al freno a mano.
Nonostante un incidente (un'uscita di strada che aveva causato notevoli danni alla carrozzeria della vetturetta, ma che li aveva lasciati, grazie ad una buona dose di ostinazione, in grado di trascinarsi fino all'arrivo), si erano piazzati terzi su diciassette partenti ed otto equipaggi arrivati (nove, considerando quell'equipaggio arrivato a piedi, dopo che avevano demolito la macchina!).
Quel giorno, decise che si sarebbe dedicato, anima e corpo, ai rallyes.
Quando ebbe la patente, appena compiuti diciotto anni, aveva cominciato a partecipare a piccole gare a livello aziendale, o poco più, in attesa dei ventun anni e del patentino sportivo.
Cominciò a farsi onore: già alla terza gara si classificò nella rosa dei primi dieci; la sua guida grintosa gli aveva, nella quarta gara, permesso di classificarsi sesto assoluto, poi la terza piazza nella quinta competizione. Gli appassionati cominciavano a vedere, in lui, una promessa per il rallysmo italiano degli anni ottanta.
La sesta gara fu un macello. Stava partecipando al rallye interno di una grossa azienda genovese quando, arrivato in un rettifilo affollato di appassionati, familiari ed amici degli equipaggi ed i soliti, immancabili tifosi esagitati, una persona, forse spinta dalla calca, era scesa sulla carreggiata a tre metri dal muso della macchina.
Colpo di freno, scalata rabbiosa di marce ed inizio di testa-coda sull'asfalto bagnato; lo spettatore era stato investito ed ucciso, la macchina (una splendida Fulvia Coupé HF bianca e blu scuro), dopo aver ferito in maniera non grave una donna, era finita fuori strada ed era andata a sbattere violentemente contro un albero. Il suo navigatore se l'era cavata con danni relativamente lievi mentre lui, invece, aveva fatto sei mesi d'ospedale a causa di diverse fratture.
Aveva anche rischiato l'incriminazione per omicidio colposo, ma venne prosciolto dall'accusa in istruttoria.
Quando venne dimesso dall'ospedale, giurò che non avrebbe mai più corso.
Tornò al presente con una punta di amarezza che gli pizzicava il cuore: aveva sempre presente quel triste episodio nel quale aveva provocato la morte di quell'uomo. E, adesso, quel deficiente di Gianni che lo faceva morire di paura!
"Giorgio, stai in qualche fogna? Parla, dai".
Ma cosa ne sapeva, lui, delle sue fogne? Di che s'impicciava? Anche se erano grandi amici, mica poteva raccontargli tutta la storia! Aveva degli obblighi con Olcese e...
"Sali, che andiamo a fare un giro e, così, ti racconto tutto".

Erano in autostrada, diretti verso Livorno. In una ventina di minuti, Gianni era stato messo al corrente del fatto, delle testimonianze, delle ammissioni di Cinzia e delle cogitazioni di Giorgio. La velocità oscillava tra gli ottanta ed i novanta all'ora ed il casel lo di Lavagna era appena sfrecciato via, fuori dai finestrini.
"Allora, cosa ne pensi?"
"Beh, vedi..." Gianni si sistemò più comodamente sul sedile. "Sì, ecco ... prima di tutto penso che, se uno vuoi aprire un'agenzia investigativa, a parte la licenza ed un altro centinaio di cosette spicciole di questo tipo, dovrebbe anche procurarsi un cliente, uno che paga, insomma; sennò che cavolo ci sta a fare nei casini? Meglio sarebbe, allora, continuare a fare il metalmeccanico ed avere, almeno, uno stipendio sicuro".
"Arguisco che questa tua tirata sia una richiesta di motivazioni, cioè del perché io faccia tutti questi casini, detto ad un livello più adatto a noi. Come direbbero gli inglesi, sono lieto che tu mi abbia posto questa domanda. Vediamo ... sì, ecco, vedi ... diciamo che questa storia mi ... incuriosisce, ecco! Cioè, diciamo che è una specie di gioco intellettuale ... che lo faccio così, tanto per fare qualcosa di diverso e occupare il tempo libero ... so che è un motivo strampalato, ma forse c'è anche un altro motivo, anzi due: da una parte voglio aiutare Olcese, ma dall'altra la tentazione di sfotterlo è troppo forte, se scoprissi qualcosa. Ma torniamo alla domanda originale: che ne pensi?"
"Ad essere sincero, non ci capisco un accidenti. Lo so anch'io che la polizia vuole archiviare tutta la faccenda: è un casino inimmaginabile, non ci capirebbe niente neanche il padreterno! Però, partendo dal principio che due teste sono meglio di una, posso cercare di aiutarti facendo qualche ipotesi".
Giorgio annuì.
"Vediamo ... ecco! era omosessuale, per esempio; sai, "nu poco ricchione'. Aveva piantato l'amichetto e questi, magari ricattato da lui, lo ha ucciso".
"Ipotesi bocciata: il perito settore ha dichiarato che Bruno Spagnolo non era dedito a pratiche omosessuali. Pensane un'altra".

================================ Fine modulo 11 =======================================

 

"Aspetta, non correre troppo! Se ci rifletti un attimo, vedrai che c'è un particolare che non ci permette di scartare quest'ipotesi: in una coppia di finocchi, di solito, uno fa la parte passiva, d'accordo, ma l'altro fa la parte attiva; se sei un finocchio attivo, solo attivo, il perito settore non lo scoprirà mai, neanche se diventa un perito otto-ore! Hai detto che era un ragazzo di vent'anni; se io fossi 'nu femmenella', mi metterei giusto con un ragazzo di quell'età. Non credi?"
Giorgio tacque, assorto, per qualche istante.
"Dì, non credi? Chesta, p'me, è 'a raggione!"
"Non ti agitare, stavo riflettendo". Si accese lentamente una sigaretta.
"Sì, il tuo discorso regge; in effetti quello che hai detto può quadrare con l'autopsia. Cinzia, poi, poteva saperlo o non saperlo, non è importante: difatti, se lo avesse saputo, o anche solo immaginato, non lo avrebbe mai ammesso; per esempio, per non sparlare del suo defunto amore. E già, così tutto quadra!"
Davanti a loro brillavano, indifferenti, le luci dell'area di servizio di Sestri Levante, con le insegne dei distributori che spandevano un'irreale luce giallina sul piazzale praticamente deserto.
"Sai Gianni, direi che ci siamo meritati una tazzulella 'e café, pensando così intensamente; sei d'accordo?"
Confortato dall'entusiastica approvazione del napoletano, Giorgio parcheggiò di fronte al bar.
Trascorsi tre quarti d'ora, erano nuovamente a Genova e Giorgio si rivolse all'amico, dopo un lungo silenzio meditabondo.
"Ho una certa idea sul dove cominciare a fare domande, ma pensavo che avrei bisogno di qualcuno che mi copra le spalle, in caso di complicazioni; ho anche bisogno di una foto del nostro amico, ma non è un problema averla: me la farò dare da Cinzia. Conto per domani sera di avere la foto e, pensavo, sarebbe simpatico cominciare la nostra inchiesta giusto domani sera. Che ne pensi?" Il napoletano annuì.
"Allora ti passo a prendere alle nove, sotto casa tua, okei?"
"Sì, va bene; però vorrei pregarti di una cosa: cerchiamo di non infilarci nei casini".
Giorgio annuì, lo accompagnò a casa e se ne andò a dormire: era stata una giornata molto intensa e, a quell'ora, desiderava solo il fresco contatto con le lenzuola del suo letto.
Le otto del mattino seguente, sorpresero Giorgio Zanelli ancora in balia del sonno. Soltanto il telefono, quando dormiva così profondamente, sarebbe riuscito a svegliarlo e, quella mattina, l'infernale apparecchio, forse conscio del fatto di cui sopra, cominciò a riempire la stanza con ondate di suoni.
Con gli occhi ancor chiusi, Giorgio frugò spasmodicamente tra svegliabicchierd'acqualibroaspiri-naportaceneresigaretteaccendino (accidenti, ho rovesciato l'acqua sul libro!), alla ricerca del diabolico apparecchio.
"'Onto ... qui il centodieci... Giorgio chi? ... Giorgio Zanelli? ... guardo se c'è ... Cinzia? ah, sei tu! ... ma ti sembra questa l'ora di rompere le scatole alla gente perbene? ... cosa ti è successo? ... vengo subito, ma fammi trovare del caffè, tanto!"
Borbottò una nutrita raffica di sacramenti mentre si staccava dal tiepido lenzuolo, si infilava jeans e maglietta e guardava sotto il letto, alla ricerca dei mocassini.
Cinque minuti dopo, con la 127 che sputacchiava e sternutiva protestando per la brusca partenza a freddo, si inserì nel traffico, diretto verso Albaro.
Dopo altri cinque minuti, arrivò davanti al 25 di via Siena. Premette il pulsante del citofono e varcò il portoncino, passando davanti alla telecamera tanto cara ad Olcese.
"Ciao, Cinzia. Prima di tutto voglio il caffè che mi hai promesso, dopo di che mi spiegherai, per filo e per segno, cosa ti è successo di tanto grave da non potermene neanche parlare per telefono".
La ragazza, pallida, annuì e portò subito una tazzona di caffè bollente che Giorgio, dopo aver zuccherato, sorseggiò con visibile piacere.
"Buono! Dove hai imparato a fare un caffè così?" "Sulle istruzioni del Nescafé. Ora che l'hai bevuto, il tuo maledetto caffè, ti spiace starmi a sentire un momentino?"
"Avanti, raccontami cos'è successo, di così catastrofico".
La ragazza, visibilmente nervosa, si sedette sull'orlo del divano.
"Ecco, vedi ... io ... sì, ho sognato, ecco! ... ho fatto un sogno ... agghiacciante, ecco!"
Giorgio sgranò gli occhi. "E tu, cretina paranoica che non sei altro, mi vieni a rompere le balle per un sogno!"
"Ma Giorgio, è stato orribile! Ho sognato che ero in macchina con un amico, uno che non conosco, ma che sapevo che era un amico; poi mio padre, in una stanza, ha acceso la luce e, quando si è accesa la lampadina, una lampadina potentissima, io ho preso fuoco! Oh, Giorgio, è stato orribile!" Le spalle della giovane erano scosse dai singhiozzi.
Giorgio la guardò, stupito. La ricordava come persona equilibrata, sensata, razionale (quanto lo si può essere a vent'anni, d'accordo!); ora era colpito da questa eccessiva reazione emotiva della giovane. Cinzia era visibilmente sconvolta e Giorgio, per aiutarla a calmarsi, decise di trattarla con dolcezza.
"Ma Cinzia, ti rendi conto che sei andata in paranoia per un semplice sogno? Mi sembra assurdo che tu sia così nervosa per una cosa così semplice. In questo periodo, nonostante la tua apparente calma, sei molto tesa; questo ti può aver portato a dormire sonni agitati e, si sa, quando non si dorme bene è facile fare brutti sogni. Esaminiamo la parte di incubo del tuo sogno: dici che tuo padre ha, in qualche maniera, provocato la tua morte; direi che questo è assurdo, visto che tuo padre impazzisce, quasi, per te. O mi sbaglio?"
"No, è vero. Hai ragione, probabilmente ho dormito male, ma sai, era un sogno così nitido ..."
"D'accordo, incidente chiuso. Ma pensaci mezza dozzina di volte, prima di chiamarmi un'altra volta per una cosa così, va bene? Mica posso tenerti per manina quando dormi, scusa!"
La ragazza tentò un timido sorriso.
"Però sarebbe simpatico che lo facessi".
"Calma-calma! Poniamo il caso che io abbia una ragazza ..."
"Ce l'hai?" "Sì, perché?" "Così, tanto per sapere ..."
Giorgio pensò, con vago rimpianto, all'occasione che, forse, gli era sfumata. O si era trattato di un'impressione dettata dalla sua fantasia? Lo ammetteva, Cinzia gli piaceva più che allora, ma questo non voleva dire che ... O forse lo voleva?
La ragazza sorrideva invitante, in attesa della sua prossima mossa. Giorgio era una persona con la battuta sempre pronta, con la mente sveglia e con le parole giuste sempre al momento giusto ... meno che in quei casi: con le ragazze, in certi frangenti, era una catastrofe.
L'attimo svanì, l'incanto si era rotto.
"Vuoi dell'altro caffè?" "No, grazie". Disse sorridendo; poi si accese una sigaretta, si passò l'indice sui baffi e ruppe il silenzio.
"Sai, circa la mia indagine..." "Sì, ci ho pensato su: se ti vuoi interessare di tutta questa faccenda, fallo pure; se invece vuoi chiamare Olcese e dirgli tutto, fallo. Basta che tutto questo la finisca di rovinarmi il sonno, che troviate l'assassino e che io possa dimenticare tutto ... col tempo".
"Beh, ho intenzione di andare avanti io, per adesso, e mi servirebbe una cosa, da te. Hai una fotografia del caro estinto? Ho avuto una mezza idea, sui motivi della sua prematura scomparsa, e vorrei controllarla".
Cinzia lo guardò con un'espressione feroce.
"Te la do, ma fammi il santissimo piacere di piantarla di fare il buffone. A modo mio, ma gli volevo bene; quindi dacci un taglio!"
Uscì dal soggiorno e tornò, dopo pochi attimi, porgendogli un'istantanea. Era una foto in bianco-e-nero di piccolo formato, una di quelle foto che i fotografi fanno per la strada, all'improvviso; oltre a Bruno vi era anche, mano nella mano, Cinzia che gli stava, evidentemente, parlando.
Giorgio la infilò nella tasca posteriore dei jeans e sorrise.

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