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Diario di Bordo (Sesta parte)

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MUSICA E NAJA

Ricordo, nella notte dei tempi, mio padre che si faceva la barba ed io, tutto orgoglioso accanto a lui, che gli mostravo la mia nuova conquista: emettevo dei fischi -di una nota sola-, anche se frammischiati a molti sibili. Poi, ho imparato a modulare il suono ed a fischiettare. Diciamo che questa, dopo un congruo numero di anni, è la maniera migliore per fruire musica eseguita da me. Per carità, ho anch'io un passato di corista, anzi due: voce bianca ai tempi della scuola, dai preti (con un saione bianco addosso, da cui spuntava solo il mio faccino paffuto) ed in un coro di montagna, ad uno spettacolo per commemorare il quattro novembre, ai tempi del mio servizio di leva, negli alpini.
Devo dire che questa è un'esperienza alla quale devo molto: appena arrivato al Battaglione Addestramento Reclute -a metà di un dolce settembre di tanti anni fa- saltò fuori un certo capitano che ci disse di voler mettere insieme una corale per uno spettacolo di cori alpini e chiese che qualcuno si presentasse volontario, alzando la canonica mano.
Mio padre -ex Regio Ufficiale nella stessa Arma- mi aveva istruito a puntino, sulla vita militare, e mi aveva insegnato la prima, unica e vera Regola del soldato di tutti i tempi e di tutti gli eserciti: mai offrirsi volontario! Essendo sempre stato la proverbiale testa d'agnello, fui tra i primi ad offrirmi. Feci il debito provino ed il celebre capitano mi bollò con un'unica parola: baritono!
Così capitò che presi confidenza con la marcia in ordine chiuso, con la manutenzione dello schioppo e con le strofe de "il Ponte di Perati", nella sua parte baritonale. Capitarono ovviamente anche altre cose, come nella vita normale: rilassatevi, nè fidanzamenti lampo con aitanti caporalmaggiori, nè leggendarie vincite a poker: solo una convocazione nell'Ufficio Maggiorità dove un maggiore, tronfio come un tacchino che ha scampato il pranzo di Natale, mi comunicò con orgoglio che ero stato destinato a Santo Stefano di Cadore, un posticino quasi più in Austria che in Italia1 , dove sarei diventato Assaltatore Alpino. Wow! Un Rambo con le stellette! Marce forzate di trecento chilometri con lo zainetto da quaranta chili! Addestramento nel corpo-a-corpo con istruttori maledettamente tanto maschi! Duemila colpi di schioppo sparati, contro gli usuali sedici. E mine! E bombe a mano! E assalti all'arma bianca!
Non sarei mai riuscito ad immaginare una cosa che mi allettasse meno... ed il tacchino maggiore fu sinceramente stupito del mio scarso (nullo!) entusiasmo. Mi trafisse con lo sguardo e mi tuonò: "Lei dovrebbe essere orgoglioso di andare a fare l'assaltatore alpino!" (Era entrata in vigore da un paio di mesi la disposizione in osservanza della quale, nei rapporti tra militari di grado diverso, era fatto obbligo di usare il lei. Volete mettere, essere insultati dal solito feroce sergente col tu oppure con il lei? Cambia tutto!).
Io, fino a quel momento terrorizzato dall'Autorità (preti, maestri, vigili urbani, carabinieri, spazzini, parcheggiatori-col-berretto, principali, professori, bigliettai d'autobus eccetera), ricordo che risposi con un assolutamente insolente (lo sgomento fa anche di questi miracoli!) "O bella, e mi spieghi un pò perché!" "Perché vuol dire che lei ha un fisico... per-fet-to!!!".
Lo guardai incredulo dall'alto di un buon palmo di differenza e, pensando al frullato di ossa rappezzate che mi tenevano dritto, gli scoppiai a ridere in faccia. Ricordo solo che, a quel punto, fu molto scortese ed anche vagamente minaccioso...
Affidandomi, per quanto riguarda il sereno proseguimento della mia naja, alla mia -notoriamente distrattissima- buona stella, imparai con paziente dedizione le strofe delle quattro canzoni che avremmo eseguito, lì a poco più di un mese.
Venne, poi, il giorno del giuramento, una rituale domenica verso il venti di ottobre. La notte prima, con il mio compagno di branda (non pensate male, banda di fissati; trattavasi, semplicemente, dell'occupante la branda a castello sottostante la mia!), discutemmo a lungo dell'impegno che avremmo solennemente assunto l'indomani; alla fine, stabilimmo che avremmo giurato fedeltà alla patria, intendendo con questa parola -gonfia di impacciante retorica- tutto ciò che provocava in noi sentimenti positivi (anche fuori dai confini nazionali, al limite!) e che l'avremmo difesa, non solo con quegli schioppi da operetta che ci avevano dato, ma sopratutto con la nostra intelligenza, il nostro buonsenso, la nostra buona volontà, il nostro lavoro, la nostra onestà ed, infine, con l'educazione che avremmo dato ai nostri figli.
Perciò non vi stupite, se mi entusiasmo più per Copenhagen che per Lipari (così, per dire!), o perché, durante la guerra del Golfo, piangevo di rabbia e frustrazione a vedere e sentire di quei massacri.
Dopo il giuramento, liberi tutti per passare la giornata coi familiari, chi li aveva, od a zonzo come un idiota, come me ed uno sparuto manipolo di altri.
Il giorno dopo, salutai i miei compagni che partivano per la desolata mia stessa destinazione, mentre io sarei rimasto presso il B.A.R. sino al giorno dopo lo spettacolo, a continuare le prove.
Il martedì, andando allo spaccio, mi imbattei in un commilitone di un paese vicino a Genova -che avevo salutato il giorno prima, destinato a precedermi nell'inferno bianco- col quale era nata una gradevole affinità.
Interpellatolo, esordì con una non velata allusione al mio fondoschiena, pretese che gli pagassi una Coca (cosa che feci di buonissimo grado!) e mi spiegò l'arcano:
"Dopo un massacrante viaggio di quattro ore, con un freddo dell'accidente sui camion aperti, siamo arrivati in questo Distaccamento. Ci siamo messi in riga ed è arrivato il capitano comandante che ci ha detto: Siete arrivati qui per uno dei soliti caos (non sono sicuro che la parola fosse questa; forse casettine?) della naja; io avevo chiesto cinque reclute e quegli... (inizia per "S", ma non è sommergibilisti!) me ne hanno mandato cinquantacinque. Stanotte dormirete qui, ma domattina tornate indietro, tutti meno il tale, il tale, il tale, il tale e Pelizza. Allora gli ho fatto notare che tu eri rimasto al B.A.R. perché eri impegnato col coro; lui ha detto: poco male e ne ha scelto un altro."
Bingo! Così, grazie a quella mano avventatamente alzata, mi sciroppai altre tre settimane di B.A.R. ed, alla fine, mi trovai a fare -poco marzialmente- lo scritturale al Comando di Brigata, lì in città.
Non che Belluno sia il massimo del divertimento, per un militare di leva, ma almeno lì parlavano ancora quasi l'italiano.
Prima di finire al Reparto Comando & Trasmissioni (Repacotrasmiles, per i telegrammi, grazie!), però, ebbi una disavventura col famoso capitano canterino; a vent'anni è normale che le gonadi maturino: cresce la barba (di solito solo ai maschietti!), si perde quella paffutezza tipica dell'adolescenza e la voce si fa più profonda. Appunto. L'orecchio addestrato del capocoro sentiva che c'era qualcuno che cominciava a steccare, ma solo dopo faticose e lunghe indagini scoprì, il giorno prima dello spettacolo, che il problema era rappresentato da un basso che cantava la parte da baritono: io, che non me ne ero minimamente accorto. Addivenimmo rapidamente ad un accordo: io avrei partecipato al concerto, facendo finta di cantare ma senza far assolutamente uscire un solo suono e lui, graziosamente, non ci avrebbe messo quella parolina, con i miei superiori, che mi avrebbe impedito di poter sperare in una licenza da quel giorno sino al mio ancora remoto congedo.
Onorammo entrambi, i patti; io con entusiasmo!
Dal mio arrivo al reparto di assegnazione, le lancette strisciarono stancamente sul quadrante dell'orologio, i fogli del calendario si staccarono di malavoglia, uno molto dopo l'altro, ma alla fine, anche per me, venne il trecentonovantaseiesimo giorno: l'ultimo!
La mia solita jella colpì, come sempre, subdolamente: il mio è stato l'ultimo contingente con chiamata trimestrale e l'ultimo a cuccarsi tredici mesi di naja. Inoltre, ciliegina sulla torta, riuscii anche a beccarmi l'anno bisestile!
Da quella esperienza, le occasioni per cantare diventarono sempre più rare e, per quanto riguarda il suonare, beh... suono alla grande il clacson ed il campanello elettrico.
Però ho riflettuto molto sulla naja e sono giunto alla conclusione che è spesso uno spreco di tempo e di risorse, sia per il Cittadino che per il paese. Il Cittadino che -prima della naja- cerca lavoro, visto che non è militassolto, può fare soltanto una cosa: continuare a cercarlo!
il Paese, invece, che ha a disposizione questi giovani e che li costringe ad imparare cose poco o per nulla interessanti ed ad ammuffire per un anno potrebbe, per esempio, insegnare nozioni di primo soccorso, di protezione civile, di antinfortunistica, cose così; un qualcosa di utile, insomma, che possa diventare dote della comunità. Già, ma forse è più semplice così com'è...

P.S. il mio famoso compagno di branda ha capito ed applicato tutte queste mie belle idee: ora è Vigile del Fuoco.

Postilla dal terzo millennio:
Giova far notare, a questo punto, che la naja obbligatoria è un problema che riguarderà solo chi ha la disgrazia di essere nato entro il 1985; gli altri potranno godere dell'onere e dell'onore delle "stellette" solo se decideranno di entrare a far parte del "sistema Difesa" del Paese, come volontari.
Nel momento di interregno tra la decisione di avere militari solo volontari e l'effettiva abolizione del servizio militare, migliaia di giovani si sono sottratti alla naja optando per il servizio civile, facendo cioè qualcosa di utile per la comunità, al punto tale da diventare una risorsa per il Paese.
Prevedo, come molti, problemi a poter assicurare i servizi, praticamente a costo zero, che finora hanno svolto questi giovani.

I PIÙ AMATI DAGLI ITALIANI (E PARLIAMO ANCHE DI VOLONTARIATO. . .)

Nota Spesso rivivo, con la memoria, le drammatiche fasi dell'affondamento -di cui sono stato attonito ed impotente spettatore- della nave London Valour, scaraventata contro la diga frangiflutti del porto di Genova -nel maggio del '70- da una improvvisa, violentissima burrasca.
Molti dei superstiti devono la vita al coraggio ed all'abilità del pilota dell'elicottero dei pompieri, l'allora capitano Rinaldo Enrico, che portò la sua esigua Libellula -un AB55 con la coda a traliccio ed una bolla di plexiglas come cabina- a calare uno speciale marchingegno in prossimità dei naufraghi in mare, per ripescarli, in mezzo a raffiche di vento che soffiavano a più di centoventi chilometri all'ora.
Era diventato un personaggio leggendario, amatissimo, con un aspetto adeguato al ruolo: alto, magro e con un paio di baffoni biondi da eroe della Battaglia d'Inghilterra. Il suo grande rimpianto, in quella drammatica occasione, fu di non poter disporre di un più moderno elicottero che, in virtù di una maggiore potenza e capienza, gli avrebbe permesso di salvare un maggior numero di naufraghi.
Ebbe, finalmente, a disposizione un più moderno AB205, nei primi mesi del '73, e durante un volo d'addestramento da Albenga a Genova, l'otto maggio di quell'anno, si alzò una fitta ed assolutamente inconsueta nebbia e lui scomparve in mare col suo nuovo elicottero, affidabile e potente, insieme ad altri tre compagni.
A Vernazzola, una piccola baia lungo il litorale di Genova, una lapide lo ricorda ed ogni volta che ci vado, mi attardo a rileggerne il testo -in genovese- ricordando uno dei miei eroi dell'adolescenza: era un uomo speciale, così come sono... normalmente speciali gli uomini che indossano la divisa del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.
Quando ci si trova nei guai si prega, si chiama la mamma, si piange, si bestemmia -secondo il proprio temperamento- ma, sopratutto, si spera che arrivino i pompieri; e loro arrivano: per levare i candelotti di ghiaccio che pendono pericolosamente, per salvare il gattino terrorizzato sull'albero(1) , per soccorrere l'anziano immobilizzato in casa da una caduta, perché le chiavi dovevi prenderle tu, no tu ed erano rimaste sul cassettone dell'ingresso, perché c'è uno strano odore, perché brucia, perché cola acqua dappertutto, perché qualcuno è rimasto intrappolato in un pozzo, in un burrone, tra le lamiere contorte, perché si vuol buttare, perché è uscito in mare e non riesce a rientrare, perché le fiamme... l'acqua... il gas... la cisterna... eccetera.
Il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco è, senza ombra di dubbio, il Corpo più amato dai cittadini, siano essi galantuomini o mariuoli (difficile che quest'ultima categoria possa amare, per esempio, i Carabinieri, ammetterete!), perché sono sempre dalla parte della gente, perché sono i nostri, che arrivano ad aiutarci nei momenti peggiori e assolutamente senza squilli di tromba, ma solo con modesto, tenace e duro lavoro.
Andavo al liceo quando, nell'ottobre del '70, i torrenti impazzirono e Genova venne sommersa da un mare di fango. Ricordo che noi giovani -oggetto misterioso ed inquietante per gli adulti- ci rimboccammo le maniche e ci mettemmo a disposizione dell'emergenza.
Io mi trovai in mano un badile -al quale davo educatamente, nei primi imbarazzanti momenti, del lei-, disperato perché non ne trovavo il pulsante d'avviamento. Con quel badile lavoravo dieci, dodici ore al giorno ed una sera, tornato a casa, mi addormentai in piedi, col dito sul pulsante del citofono..
Ricordo le nostre meravigliose compagne, in sudici jeans, maglione girocollo tipo marina -era di moda-, stivaloni di gomma e guanti per lavare i piatti, ricoperte di una crosta di fango secco, struccate, stanche, sporche, ma meravigliose col loro secchio, con la loro pala, a lavorare accanto a noi, alla pari -essendo uguali a noi!-, fumando una sigaretta in quattro, tenendola tra i polsi per non sporcarla con le mani infangate. Eravamo tutti lì, coi badili, senza che nessuno avesse pensato di chiederci di dare una mano.
Il ricordo che ho più caro, di quell'esperienza, è un titolo a nove colonne del Secolo XIX, allora il giornale dei benpensanti un pò conservatori e che consideravano noi giovani dei degenerati, con un tonante GRAZIE, GIOVANI!
Sei anni dopo, il terremoto in Friuli; ero a militare -ad ottanta chilometri dall'epicentro- e passai una frenetica notte a lavorare, aiutando ad allestire un'autocolonna con viveri, tende, cucine da campo, medicinali, taniche di benzina. Ricordo i sacchi di zucchero e di pasta stivati sui camion, le riparazioni d'urgenza alle cucine campali fatte col fil di ferro, i complessi fogli di marcia dei veicoli compilata alla luce degli accendini ed il mio comandante che -arrivato nel suo ufficio alle cinque del mattino, dopo una convulsa notte al Comando di Brigata- mi vide entrare e mettermi sull'attenti e mi chiese: "Cosa c'è?" "Vorrei andare in Friuli anch'io, Maggiore!" "Perché?" "Perché mi sono rotto le scatole di giocare ai soldatini e voglio andare ad essere utile a quella gente!" Il suo viso severo rimase burbero, ma mi sembrò che gli si illuminasse lo sguardo: "L'organico di questa colonna è già al completo, ma tu sei il primo della lista per la prossima". Ringraziai ed uscii, quasi felice.
L'autocolonna restò parcheggiata nel piazzale per otto giorni, poi venne smobilitata ed i quarti di bue congelati, che erano marciti al sole, finirono di appestare l'aria: non erano arrivati gli ordini.
In compenso, nel Friuli raso al suolo dal sisma, erano arrivati ragazzi da tutt'Italia, a proprie spese (e propri rischi!), per scavare tra le macerie di Gemona, San Daniele, Osoppo, magari con le sole mani nude...
L'anno dopo, l'alluvione in valle Stura, appena alle spalle di Genova. La domenica -ero iscritto all' Associazione Alpini- si partiva con le auto e si andava a spalare, ad aiutare quella povera gente a recuperare dalla mota solidificata masserizie infangate.
Una sera dell'ottobre '80, tornai a casa e sentii la radio: terremoto in Irpinia. Non feci alcun commento: presi il telefono e chiamai un socio dell'Associazione Alpini -si stava formando un gruppo di protezione civile- e dissi solo tre parole: "Sono a disposizione." Fu, così, anche Irpinia.
Con questi precedenti, vi sembra strano che -una volta terminato il lungo iter burocratico per dotare il nostro Paese di un servizio di Protezione Civile- abbia presentato domanda in prefettura per essere iscritto nei ruoli -provvisori- dei volontari?
Dopo appena quattro anni -potenza della burocrazia!-, venni invitato a seguire un corso per i volontari presso il comando provinciale dei Vigili del Fuoco: tre ore, tutte le domeniche mattina, per quattro mesi. Ho avuto così modo di avere un'infarinatura di ciò che un pompiere deve sapere, per svolgere il suo lavoro: dai nodi al come muoversi in un edificio pericolante, da come spegnere un incendio di carburante con l'acqua (con lo schiumogeno son capaci tutti!) alle nozioni di primo soccorso; dalla conoscenza e l'uso delle varie attrezzature dei vari mezzi in loro dotazione, alla decifrazione dei codici riportati sui pannelli arancioni dei veicoli che trasportano carichi pericolosi; da nozioni legislative al montaggio di tende e nozioni di logistica...
Alla fine, un esame e l'iscrizione ai ruoli definitivi dei Volontari della Protezione Civile.
Mi trovai anche ad operare coi Vigili del fuoco: nell'arido febbraio del '90, molti incendi dolosi devastarono i boschi della Liguria. All'inizio di marzo, fummo mobilitati anche noi volontari(2) .
Operare con loro mi permise di capire la loro filosofia operativa, con le squadre sempre composte da anziani affiancati ai giovani, per la massima efficienza ed il minimo dei rischi; infatti, un conto è ciò che puoi imparare ai corsi, un altro è l'applicazione pratica effettuata da gente esperta che ti mostra tutte le malizie, i trucchi del mestiere, ti tramanda la modotologia migliore affinata sui propri errori.
Fu una faticosa giornata di arrampicate e spegnimenti, ma ero nelle condizioni migliori per apprezzare appieno il lavoro di quegli uomini che, per tutti noi, sono sempre disponibili, ventiquattr'ore su ventiquattro.
Gli anni '90, poi, mi videro partecipare alle più disparate missioni: dallo spegnimento di incendi boschivi alle alluvioni in Piemonte e Liguria, dal terremoto in Umbria alla Missione Arcobaleno in Albania. Quest'ultima, devo ammettere, mi ha davvero segnato: il contesto è riuscito a scalfile la mia scorza -che non è comunque tenera- ed amo citare una frase dal film Blade Runner per condensare in una battuta tutto il caos organizzato, l'approssimazione, l'illegalità, le sofferenze e gli orrori che ho visto e di cui ho avuto notizia: "I miei occhi hanno visto cose che nessuna mente umana può immaginare".

Note:

1) Diversi anni fa ero in campeggio e Camillo, che era molto giovane, non riusciva più a scendere dall'albero sul quale si era rifugiato (credo a causa di un incontro -molto ravvicinato- con un cagnone giocherellone!); dopo una giornata di strazianti miagolii ed occhiatacce del tipo: "Beh, cosa fai? Non mi vieni a prendere?", lo andai -eroicamente- a recuperare, procurandomi anche qualche escoriazione. Mi capitò, in seguito, di narrare il fatto ad un conoscente pompiere, che commentò la cosa con professionale distacco: "Mai visto un gatto morto su un albero!". Lo guardai, messo in crisi dall'esperta argomentazione, ma poi sorrisi e ribattei, serafico: "...Anche perché, se muoiono, perdono la presa e cadono a terra!". Ricordo che se ne andò con aria molto meditabonda...

2) In quel periodo, vorrei far notare, molti di noi si erano già mossi autonomamente, per dare una mano.

 

 
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