I
PIÙ AMATI DAGLI ITALIANI (E PARLIAMO ANCHE DI VOLONTARIATO. . .)
Nota Spesso rivivo, con la memoria,
le drammatiche fasi dell'affondamento -di cui sono stato attonito ed impotente
spettatore- della nave London Valour, scaraventata contro la diga frangiflutti
del porto di Genova -nel maggio del '70- da una improvvisa, violentissima
burrasca.
Molti dei superstiti devono la vita al coraggio ed all'abilità
del pilota dell'elicottero dei pompieri, l'allora capitano Rinaldo Enrico,
che portò la sua esigua Libellula -un AB55 con la coda a
traliccio ed una bolla di plexiglas come cabina- a calare uno speciale
marchingegno in prossimità dei naufraghi in mare, per ripescarli,
in mezzo a raffiche di vento che soffiavano a più di centoventi
chilometri all'ora.
Era diventato un personaggio leggendario, amatissimo, con un aspetto adeguato
al ruolo: alto, magro e con un paio di baffoni biondi da eroe della Battaglia
d'Inghilterra. Il suo grande rimpianto, in quella drammatica occasione,
fu di non poter disporre di un più moderno elicottero che, in virtù
di una maggiore potenza e capienza, gli avrebbe permesso di salvare un
maggior numero di naufraghi.
Ebbe, finalmente, a disposizione un più moderno AB205, nei primi
mesi del '73, e durante un volo d'addestramento da Albenga a Genova, l'otto
maggio di quell'anno, si alzò una fitta ed assolutamente inconsueta
nebbia e lui scomparve in mare col suo nuovo elicottero, affidabile e
potente, insieme ad altri tre compagni.
A Vernazzola, una piccola baia lungo il litorale di Genova, una lapide
lo ricorda ed ogni volta che ci vado, mi attardo a rileggerne il testo
-in genovese- ricordando uno dei miei eroi dell'adolescenza: era un uomo
speciale, così come sono... normalmente speciali gli uomini che
indossano la divisa del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.
Quando ci si trova nei guai si prega, si chiama la mamma, si piange, si
bestemmia -secondo il proprio temperamento- ma, sopratutto, si spera che
arrivino i pompieri; e loro arrivano: per levare i candelotti di ghiaccio
che pendono pericolosamente, per salvare il gattino terrorizzato sull'albero(1)
, per soccorrere l'anziano immobilizzato in casa da una caduta, perché
le chiavi dovevi prenderle tu, no tu ed erano rimaste sul cassettone dell'ingresso,
perché c'è uno strano odore, perché brucia, perché
cola acqua dappertutto, perché qualcuno è rimasto intrappolato
in un pozzo, in un burrone, tra le lamiere contorte, perché si
vuol buttare, perché è uscito in mare e non riesce a rientrare,
perché le fiamme... l'acqua... il gas... la cisterna... eccetera.
Il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco è, senza ombra di dubbio,
il Corpo più amato dai cittadini, siano essi galantuomini o mariuoli
(difficile che quest'ultima categoria possa amare, per esempio, i Carabinieri,
ammetterete!), perché sono sempre dalla parte della gente, perché
sono i nostri, che arrivano ad aiutarci nei momenti peggiori e assolutamente
senza squilli di tromba, ma solo con modesto, tenace e duro lavoro.
Andavo al liceo quando, nell'ottobre del '70, i torrenti impazzirono e
Genova venne sommersa da un mare di fango. Ricordo che noi giovani
-oggetto misterioso ed inquietante per gli adulti- ci rimboccammo
le maniche e ci mettemmo a disposizione dell'emergenza.
Io mi trovai in mano un badile -al quale davo educatamente, nei primi
imbarazzanti momenti, del lei-, disperato perché non ne trovavo
il pulsante d'avviamento. Con quel badile lavoravo dieci, dodici ore al
giorno ed una sera, tornato a casa, mi addormentai in piedi, col dito
sul pulsante del citofono..
Ricordo le nostre meravigliose compagne, in sudici jeans, maglione girocollo
tipo marina -era di moda-, stivaloni di gomma e guanti per lavare i piatti,
ricoperte di una crosta di fango secco, struccate, stanche, sporche, ma
meravigliose col loro secchio, con la loro pala, a lavorare accanto a
noi, alla pari -essendo uguali a noi!-, fumando una sigaretta in quattro,
tenendola tra i polsi per non sporcarla con le mani infangate. Eravamo
tutti lì, coi badili, senza che nessuno avesse pensato di chiederci
di dare una mano.
Il ricordo che ho più caro, di quell'esperienza, è un titolo
a nove colonne del Secolo XIX, allora il giornale dei benpensanti un pò
conservatori e che consideravano noi giovani dei degenerati, con un tonante
GRAZIE, GIOVANI!
Sei anni dopo, il terremoto in Friuli; ero a militare -ad ottanta chilometri
dall'epicentro- e passai una frenetica notte a lavorare, aiutando ad allestire
un'autocolonna con viveri, tende, cucine da campo, medicinali, taniche
di benzina. Ricordo i sacchi di zucchero e di pasta stivati sui camion,
le riparazioni d'urgenza alle cucine campali fatte col fil di ferro, i
complessi fogli di marcia dei veicoli compilata alla luce degli
accendini ed il mio comandante che -arrivato nel suo ufficio alle cinque
del mattino, dopo una convulsa notte al Comando di Brigata- mi vide entrare
e mettermi sull'attenti e mi chiese: "Cosa c'è?" "Vorrei
andare in Friuli anch'io, Maggiore!" "Perché?" "Perché
mi sono rotto le scatole di giocare ai soldatini e voglio andare ad essere
utile a quella gente!" Il suo viso severo rimase burbero, ma mi sembrò
che gli si illuminasse lo sguardo: "L'organico di questa colonna
è già al completo, ma tu sei il primo della lista per la
prossima". Ringraziai ed uscii, quasi felice.
L'autocolonna restò parcheggiata nel piazzale per otto giorni,
poi venne smobilitata ed i quarti di bue congelati, che erano marciti
al sole, finirono di appestare l'aria: non erano arrivati gli ordini.
In compenso, nel Friuli raso al suolo dal sisma, erano arrivati ragazzi
da tutt'Italia, a proprie spese (e propri rischi!), per scavare tra le
macerie di Gemona, San Daniele, Osoppo, magari con le sole mani nude...
L'anno dopo, l'alluvione in valle Stura, appena alle spalle di Genova.
La domenica -ero iscritto all' Associazione Alpini- si partiva con le
auto e si andava a spalare, ad aiutare quella povera gente a recuperare
dalla mota solidificata masserizie infangate.
Una sera dell'ottobre '80, tornai a casa e sentii la radio: terremoto
in Irpinia. Non feci alcun commento: presi il telefono e chiamai un socio
dell'Associazione Alpini -si stava formando un gruppo di protezione civile-
e dissi solo tre parole: "Sono a disposizione." Fu, così,
anche Irpinia.
Con questi precedenti, vi sembra strano che -una volta terminato il lungo
iter burocratico per dotare il nostro Paese di un servizio di Protezione
Civile- abbia presentato domanda in prefettura per essere iscritto nei
ruoli -provvisori- dei volontari?
Dopo appena quattro anni -potenza della burocrazia!-, venni invitato a
seguire un corso per i volontari presso il comando provinciale dei Vigili
del Fuoco: tre ore, tutte le domeniche mattina, per quattro mesi. Ho avuto
così modo di avere un'infarinatura di ciò che un pompiere
deve sapere, per svolgere il suo lavoro: dai nodi al come muoversi in
un edificio pericolante, da come spegnere un incendio di carburante con
l'acqua (con lo schiumogeno son capaci tutti!) alle nozioni di primo soccorso;
dalla conoscenza e l'uso delle varie attrezzature dei vari mezzi in loro
dotazione, alla decifrazione dei codici riportati sui pannelli arancioni
dei veicoli che trasportano carichi pericolosi; da nozioni legislative
al montaggio di tende e nozioni di logistica...
Alla fine, un esame e l'iscrizione ai ruoli definitivi dei Volontari della
Protezione Civile.
Mi trovai anche ad operare coi Vigili del fuoco: nell'arido febbraio del
'90, molti incendi dolosi devastarono i boschi della Liguria. All'inizio
di marzo, fummo mobilitati anche noi volontari(2)
.
Operare con loro mi permise di capire la loro filosofia operativa, con
le squadre sempre composte da anziani affiancati ai giovani, per la massima
efficienza ed il minimo dei rischi; infatti, un conto è ciò
che puoi imparare ai corsi, un altro è l'applicazione pratica effettuata
da gente esperta che ti mostra tutte le malizie, i trucchi del mestiere,
ti tramanda la modotologia migliore affinata sui propri errori.
Fu una faticosa giornata di arrampicate e spegnimenti, ma ero nelle condizioni
migliori per apprezzare appieno il lavoro di quegli uomini che, per tutti
noi, sono sempre disponibili, ventiquattr'ore su ventiquattro.
Gli anni '90, poi, mi videro partecipare alle più disparate missioni:
dallo spegnimento di incendi boschivi alle alluvioni in Piemonte e Liguria,
dal terremoto in Umbria alla Missione Arcobaleno in Albania. Quest'ultima,
devo ammettere, mi ha davvero segnato: il contesto è riuscito a
scalfile la mia scorza -che non è comunque tenera- ed amo citare
una frase dal film Blade Runner per condensare in una battuta tutto il
caos organizzato, l'approssimazione, l'illegalità, le sofferenze
e gli orrori che ho visto e di cui ho avuto notizia: "I miei occhi
hanno visto cose che nessuna mente umana può immaginare".
Note:
1) Diversi anni fa ero in campeggio e Camillo,
che era molto giovane, non riusciva più a scendere dall'albero
sul quale si era rifugiato (credo a causa di un incontro -molto ravvicinato-
con un cagnone giocherellone!); dopo una giornata di strazianti miagolii
ed occhiatacce del tipo: "Beh, cosa fai? Non mi vieni a prendere?",
lo andai -eroicamente- a recuperare, procurandomi anche qualche escoriazione.
Mi capitò, in seguito, di narrare il fatto ad un conoscente pompiere,
che commentò la cosa con professionale distacco: "Mai visto
un gatto morto su un albero!". Lo guardai, messo in crisi dall'esperta
argomentazione, ma poi sorrisi e ribattei, serafico: "...Anche perché,
se muoiono, perdono la presa e cadono a terra!". Ricordo che se ne
andò con aria molto meditabonda...
2) In quel periodo, vorrei far notare, molti
di noi si erano già mossi autonomamente, per dare una mano.
|