ALI!
Io ho le ali. Non da executive, né
da arcangelo, né da passero, ma ho le ali: piantate dentro la testa.
Mi affascina tutto ciò che vola (salvo gli scapaccioni, voi capirete!)
e, alle volte, sento come un prurito in corrispondenza delle scapole,
proprio come se mi stessero per spuntare. Amo lo schiaffo salmastro del
vento sul viso che provo in moto, sulle litoranee, e che mi fa pensare
di essere un gabbiano, libero nel vento e nel sole, od il pilota di un
fragile biplano di tanti anni fa. Ho la netta sensazione che saprei pilotare,
pur non avendo mai provato, e, quando sento il rombo di un aereo ad elica,
il sibilo di un reattore od il frastuono tambureggiante di un elicottero,
è più forte di me: devo vederlo! Ho volato diverse volte,
con sparuti monomotori caracollanti su brevi piste erbose, con fragorosi
turboelica, con moderni reattori dagli interni nitidi ed essenziali, con
emozionanti elicotteri liberi di alzarsi, scendere, sostare nel cielo,
ripartire con un balzo, osservare, seguire, danzare nell'aria (come giovani
zanzare, tanto per citare Ivano Fossati, un cantautore che amo) nella
massima libertà.
Mi piace fermarmi ad osservare gli elaborati arabeschi tracciati dai jet
contro l'azzurro del cielo, mi riempie di allegria vedere che una stella,
lassù in alto, si muove sapendo che lì a poco potrò
riconoscerne i fuochi -verde e rosso- di posizione e, quando sarà
ormai dietro le mie spalle, ne sentirò il sibilo dei motori; se
sono in spiaggia osservo con intimo piacere gli elicotteri della Guardia
di Finanza, della Polizia o dei Carabinieri che, rombando a pochi metri
dal pelo dell'acqua, sorvegliano il litorale; se l'elicottero, invece,
è quello dei Vigili del Fuoco, so che qualcuno è nei guai
e che l'unica speranza che può avere è indissolubilmente
legata all'apparizione di quello snello velivolo bianco e rosso.
Se sono in Piemonte, ad accudire alle viti ed al vino della mia vigna,
sono affascinato dalle evoluzioni a bassa quota dei Tornado dell'Aeronautica
Militare, che coprono il centinaio di chilometri da Piacenza in una manciata
di minuti: non li vedo, in quel contesto, come strumenti di morte, rovina
e distruzione, ma solo come meravigliosi oggetti volanti, capaci di volare
-col loro sistema automatico di navigazione radar-altimetrica- a pochi
metri dal suolo, scavalcando le siepi e le linee elettriche a quasi mille
chilometri all'ora.
La sera, poi, quando mi capita di andare verso casa e vedo, davanti a
me, i fari di atterraggio di un aereo che sorvola la costa per posarsi
all'aeroporto, so che -se sono all'incirca le undici- è il volo
da Roma, l'ultimo volo di linea della giornata, e mi diverto a calcolare
a mente se è in orario o con quanto ritardo arriverà.
Che poi, atterrare a Genova di notte, è un'esperienza che vale
assolutamente la pena di vivere: l'aereo arriva sulla verticale del monte
di Portofino ed entra nel cosiddetto sentiero d'atterraggio, una linea
immaginaria -ma tracciata nitidamente dagli impulsi del radiofaro- che
lo porterà, dopo un volo rettilineo di una quindicina di chilometri,
a posare con esattezza il carrello all'estremità della pista strappata
al mare.
Se il caso od il calcolo vi hanno portato a sedere sul lato destro del
velivolo, vedrete sfilare sotto di voi i paesi del Golfo Paradiso: l'incantevole
Camogli con le luci di Ruta sparse per tutta la collina soprastante, Recco
totalmente ricostruita dopo i pesanti bombardamenti dell'ultima guerra
-attirati dal suo alto e strategicamente vitale viadotto ferroviario-,
la quieta Sori, Bogliasco con la piscina da pallanuoto proprio in riva
al mare ed il suo arcuato ponte romano; poi gli estesissimi e dolcemente
illuminati parchi di Nervi -e stiamo già sorvolando i sobborghi
di Genova-, la strada costiera che si snoda lungo la riva frastagliata
e le macchine che la percorrono con apparente lentezza, seguendo fedelmente
il cono di luce dei fari, Corso Europa, appena più all'interno,
con le sue corsie ed il suo spartitraffico illuminati di vivida luce gialla,
monte Fasce con le sue luci bianche e rosse sulla vetta e monte Moro,
appoggiato al Fasce, la cui sommità sfila alla vostra stessa quota,
quattrocento e passa metri, e che è a poco più di seicento
metri dal mare; poi i quartieri di levante, oscuri di giardini e parchi
bui, le luci della litoranea che si riflettono sul mare, l'insieme disordinato
dei padiglioni rosati dell'ospedale pediatrico Gaslini, la pacifica baia
di Vernazzola e quella pittoresca e turistica di Boccadasse, la lunga
promenade di Corso Italia con l'abbazia di San Giuliano e, alla fine,
il Palasport e la Fiera, con Viale Brigate Partigiane -con le sue ampie
aiuole a centro strada- che punta, come un dito accusatore, verso i monti,
verso la stazione Brignole affiancata da due grattacieli; subito dopo
la grande estensione di Piazza della Vittoria, frutto del razionalismo
architettonico dell'epoca fascista col suo candido arco ai caduti. Più
avanti, dopo la cupola illuminata della basilica di Carignano, comincerete
a veder scorrere -appena sotto di voi- il porto, sfavillante delle luci
delle calate e delle navi all'ormeggio, il grattacielo di Piazza Dante(*),
i vari palazzi storici genovesi, illuminati in modo estremamente suggestivo,
il ciuffo di grattacieli nati negli ultimi anni a far compagnia alla Lanterna,
il tutto visto contro colline rifulgenti di migliaia di finestre illuminate,
con le abitazioni arrampicate ardimentosamente fin sulle sommità.
Ormai pochi metri di quota vi separano dal livello del suolo e riuscite
a vedere il viadotto dell'autostrada che scavalca agilmente la Val Polcevera,
le ultime calate portuali ed gli altiforni dello stabilimento siderurgico,
accanto al quale prenderete terra.
Se poteste avere una visione frontale vedreste, oltre le luci della pista,
i mille lumi dei quartieri occidentali di Genova e, dolcemente inarcate
verso sinistra, le macchie di luce che indicano le località sulla
riviera di Ponente, fino a Capo Noli, con Savona al centro, vivida.
Ancora pochi istanti: vi sembrerà di atterrare in mezzo ai capannoni
e sentirete, infine, lo scossone ed il brusco stridìo del vostro
atterraggio, con i motori che urleranno per lo sforzo di fermare la massa
del vostro velivolo e per la rabbia di non essere più padroni del
cielo.
Poi, il lento spostamento del vostro aereo, forzato dalla mano del pilota
ad abbandonare il suo essere lieve per diventare una sorta di ingombrante
e greve veicolo terrestre, fino al piazzale, fino al parcheggio dove i
piloti, seguendo la linea gialla davanti a loro, vi avranno portato insieme
ad una cinquantina di tonnellate di metallo, plastica, merci ed umanità
assortita.
Un segnale luminoso indicherà ai piloti il punto dove fermare il
loro e vostro guscio non più volante e di arrestare i motori, mentre
la loro memoria andrà alla figura -di appena ieri- dell'addetto
al piazzale che, con le bacchette di segnalazione, indicava dove fermare,
incrociandole, e con un gesto apparentemente brusco indicava di "tagliare"
i motori, di spegnerli.
Le spie delle cinture si sono spente, vi alzerete nella confusione dell'arrivo
e, con pazienza, arriverete al portello anteriore, contro al quale sarà
posizionato il corridoio mobile che vi condurrà nell'aerostazione.
Dopo le procedure di arrivo, uscirete dall'aerostazione e potrete vedere
come il riassunto di Genova: una fabbrica a destra, un'area portuale a
sinistra e davanti a voi colline dove occhieggiano le luci delle abitazioni;
più vicino a voi, un viale di palme e, proprio a pochi metri, un
biplano SVA della prima guerra mondiale, orgoglio delle officine Ansaldo,
in una teca di vetro che vi permetterà di valutarne l'apparente
fragilità, con tutto quel legno e quella tela, ed il coraggio di
chi, ottanta e passa anni fa, affrontava il cielo nel suo abitacolo aperto,
così scarno e freddo rispetto al concetto di aereo che si è
formato nella vostra mente oggi, quando la velocità di atterraggio
di molti aerei è più alta della velocità massima
di quel gomitolo di funi, legna e tela che, con stupore, state osservando.
(*) Stiamo parlando del più alto edificio
di cemento armato in Italia, costruita in un paio degli anni '30 su progetto
dell'architetto Piacentini.
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