DUE RUOTE
DI LIBERTÀ
Il centauro, era una mitica figura col corpo
di cavallo ed il tronco umano, anche gli antichi testi non si soffermavano
in quale categoria rientrasse il cervello di questo strano essere; anzi,
non vengono neanche sfiorati dal problema.
Oggi, per similitudine, viene definito centauro chi è mezzo umano
e mezzo motocicletta. Sull'assegnazione del cervello alla parte umana
od a quella equina, c'è divergenza di opinioni nel mondo attuale:
per molti la parte in questione risente pesantemente della discendenza
equina (nella fattispecie: testa d'asino!), per altri è da riscontrare
il sospetto di un briciolo di umana intelligenza. Come in tutte le cose,
il giusto è nel mezzo: i tanti motociclisti armati di buon senso
vengono accomunati ai pochi idioti che, convinti di essere immortali,
mettono a dura prova il destino e la tolleranza del loro prossimo.
Fatta questa premessa, vi metterò a parte del mio orribile segreto:
sono un motociclista!
Quando ero ragazzo, la mia voglia di avere un veicolo -a due ruote, data
l'età-, si era sempre scontrata con la feroce ed inflessibile opposizione
della mia famiglia, fatta eccezione per la versione a trazione animale
(leggi bicicletta), obiettivamente improponibile in una città ricca,
stranamente, più di salite che di discese!
Per me il mezzo (ciclomotore, scooter, moto, auto), non era -e non è
tuttora- lo strumento di prestigio sociale, l'indispensabile attrezzo
per poter gareggiare con i miei amici (anche perché non ne ho mai
avuti); era invece solo la maniera di avere quella mobilità che
i servizi pubblici offrono solo disponendo di molto tempo e di infinita
pazienza; era per poter andare in giro a vedere, capire, conoscere, placare
la mia -elevata- irrequietezza puberale, per cercar di trovare -e coltivare-
contatti umani, a volte perfino amicizie.
A diciotto anni, forse anche a causa della mia inesperienza, ho preso
un autobus. Ero senza biglietto e l'ho preso col ciclomotore di un amico:
in pieno. Ero così malconcio che mi hanno portato all'ospedale
in quattro viaggi e, da quella volta, sono la dimostrazione che la medicina
non è una scienza esatta: i medici avevano infatti pronosticato
lugubremente che non sarei arrivato alla sera...
Dopo sei mesi d'ospedale ed il rabbercio di un numero elevatissimo di
ossa ed ossicini (non sapevo di averne così tante. E tutte fratturabili,
poi!), abbandonai l'idea delle due ruote per un paio di lustri e mi dedicai
ad un grande amore: guidare (auto).
Nell'83 ebbi la ventura di scassarmi, ulteriormente, un ginocchio; ma
questa volta era un dignitoso infortunio sul lavoro (che fa male come
quando ti scassi facendo lo scemo sugli sci, ma la gente ti dice "poverino",
anziché pensare "così impara a fare l'idiota").
Finito il lavoro con colla e scotch, il medico mi spedì a farmi
seviziare da un feroce fisioterapista: ebbi, grazie a lui, l'occasione
di ripassare tutto il mio catalogo delle parolacce (agguingendone due
pagine nuove-nuove) e di maledire cordialmente il tipo che aveva però
un grosso difetto: era un giocatore di football americano di taglia praticamente
sconfinata: addirittura più grossa della mia (e vi assicuro che,
se dico così, con la mia taglia, vuol dire che era veramente grosso!).
Mi consigliarono, alternativamente, di procurarmi una cyclette e di pedalare
come un matto; io mi immaginai in sella a questo destriero a percorrere
entusiasmanti viaggi nell'angolo del tinello di casa e, conoscendomi ormai
a sufficenza, capii che, dopo una settimana, mi sarei stufato. Così
mi procurai una Bottecchia da turismo e, avvantaggiato dal fatto che in
quel periodo abitavo alla Foce, zona di Genova notoriamente pianeggiante,
iniziai a spedalazzare in giro.
Vinto il panico da traffico (il ciclista, per le caratteristiche del mezzo
-vedi alle voci ripresa e freni- è l'utente della strada più
a rischio di tutto il creato: il pedone può sempre allungare il
passo o fare un salto indietro, un gatto infilarsi sotto una macchina
in sosta...), arrivai a spingermi sempre più lontano, tanto che
-quando tornai finalmente al lavoro- a volte coprivo la tratta da casa
al lavoro, una decina di chilometri, pedalando solertemente (ed arrivando
sempre con la lingua affettata dai raggi della ruota anteriore; avete
mai fatto una salita immersi in una fitta nuvola di gas di scarico? Provare
per credere!), con grande stupore e sollazzo dei miei compagni di lavoro.
Nel lontano ottantasei, io ed il cambio della mia auto avemmo un'incomprensione,
che portò rapidamente ad una rottura (sua, totale!). Travolto anche
da altri seri problemi, decisi di far riparare la macchina e, contestualmente,
di procurarmi un ciclomotore d'occasione: per la modica spesa di duecentocinquanta
biglietti da mille, entrai in possesso di un Boxer Piaggio prima serie
(risalente, all'incirca, all'impresa dei Mille e sfruttato, molto sfruttato!).
Ricordo, tra tutte le avventure liete o meno vissute col mio Boxer (avventure
che spesso mi vedevano portarlo -rigorosamente a mano!- dal meccanico),
un... naufragio che facemmo, una mattina, sotto il diluvio universale
(Parte seconda: La Vendetta!), con lui che si ostinava, pervicacemente,
a non voler funzionare, lamentando l'annegamento della pipetta della candela.
Dopo circa sei mesi, mi trovai a fare un pò di conti: Il Boxer
mi era costato, di riparazioni varie, circa settecentomila lire; il dubbio
di aver fatto, da qualche parte, una fesseria cominciò a farsi
prepotentemente strada in me...
Riuscii a radiare il Boxer rimettendoci solo trentamila lire (oltre alle
famose settecentomila!) e potei così sfoggiare un Sì Piaggio
rosso, nuovo di zecca (e con la pipetta ben stagna!).
Era così bello che, dopo due anni, mi lasciò fuggendo con
un altro (ignoto) al quale indirizzai regolare denuncia ai carabinieri
ed una fitta nuvola di maledizioni. Così mi ricomprai un altro
Sì, stavolta color cannadifucile, che era ancora più bello
dell'altro: impiegò solo tre mesi a scomparire!
Forse -pensai- se non fossero stati senza targa, mi sarebbero durati di
più; così, dentro di me, cominciò a maturare l'interesse
per un motociclo targato, analizzando seriamente le varie possibilità
offerte dal mercato.
Prima di tutto: scooter o moto? Considerai il fatto che lo scooter è
l'ideale per andare a lavorare, con le gambe ben riparate da freddo, pioggia
e cadute, perfetto per muoversi in città: appunto! La mia pulsione
di libertà, di movimento, sarebbe così stata limitata ad
un ambito, al massimo, provinciale.
Quindi: moto! Ma che tipo?
Una affusolata stradale per sfrecciare in autostrada a duecento e swanzig
chilometri all'ora?
Una scarna moto da trial, con la quale arrampicarsi su tutto, anche su
per il tubo di una grondaia?
Una robusta moto da cross, perfetta per disimpegnarsi agilmente da tutti
i problemi di fondo stradale(*)?
Una custom, con la quale rivivere l'epopea di Easy Rider? E chi se ne
importava di Easy Rider! Ero troppo giovane, all'epoca del film, e poi,
all'ombra della Lanterna, la cosa assolutamente impossibile è proprio
montare facile (Montare motociclette, fissati che non siete altro! Che
poi, a pensarci bene, anche per quella cosa lì... mica uno scherzo,
da queste parti!).
Mi serviva una moto che andasse bene per tutto questo: viaggetti, strade
sterrate (pensavo alle alture, lo giuro!), casa-lavoro e, con gli anni
si cambia, anche quel briciolo di prestigio che la mia scassata giardinetta
francese era molto lontana dal suggerire.
La soluzione al problema, quindi, è definita da una parola di sei
lettere: Enduro! Che è la contrazione di Endurance, un tipo di
gara motociclistica fatta di percorsi infami e di durata incredibile.
Diciamo che in sella ad un'Enduro, e chiamandosi Eddy Orioli, si può
anche pensare di vincere la Parigi-Dakar: ho reso il concetto?
Così cominciai a cercare un'Enduro di cilindrata moderata, diciamo
sui 200 cc, onde menare in ogni-dove la mia imponente figura.
Dopo un paio di mesi, il meccanico (ramo moto) di un mio amico, mi telefonò
avvisandomi di aver trovato una XL200 della Honda. La guardai fissa nel
faro (lei contraccambiò con un ammiccamento abbagliante/anabbagliante)
e le dissi: sarai mia! Il motore emise uno scoppiettio entusiasta e perfezionammo
la nostra unione davanti ad un notaio.
Questo, però, dopo che ebbi un nerissimo presagio: girando per
cercare questa mia futura mia moto, capitai in un grosso negozio dell'usato
gestito da un mio ex vicino di casa (ancora dei tempi in cui preferivamo
giocare coi soldatini che... con le bambole!), il quale si era, dall'età
pubere in poi, fatto un nome come crossista. Poi, appesa la bardatura
da gara al chiodo, aveva messo su famiglia, aveva il suo lavoro che amava
eccetera, eccetera. Insomma, ci facemmo una bella chiacchierata sui tempi
della nostra infanzia comune, su quello che avevamo combinato nella vita,
sui nostri progetti ed aspirazioni e così via.
Mentre andavo dal notaio per regolarizzare l'acquisto, comprai il giornale
(come ogni giorno che dio manda in terra e che non vede i poligrafici
in agitazione) e, comodamente pigiato in autobus, mentre cercavo i capire
cosa avessero combinato nel mondo, in Italia ed in città (sempre
senza dirmi mai niente!) lessi una notizia che mi raggelò: il mio
ex vicino di casa era morto. Stava andando a lavorare, quando ha perso
il controllo del mezzo (appena superato un autobus, sembra a causa di
un' auto che sopraggiungeva) e si era, allora, correttamente lanciato
(se vi sembra una cosa sciocca, provate un pò a rimanere con una
gamba sotto due quintali di moto, poi mi saprete dire!), ma era stato
travolto dall'autobus, che lo aveva ucciso sul colpo.
Pensai che lui, che ci sapeva andare alla grande, in moto, era morto così...
io che, invece, non ci sapevo andare per niente, che fine avrei fatto?
Sono stato sfiorato dall'idea di tornare a casina, lo giuro, telefonare
al meccanico e dirgli che avevo scherzato. Poi, però, mi dissi
che ognuno aveva il proprio destino, che nessuno può sapere come
e quando finirà la propria vita e che... beh, che diavolo!, avrei
tenuto presente la tragica fine di questo amico e ne avrei fatto tesoro.
Così divenni il felice proprietario de La Rossa, la mia fantastica
prima motocicletta con la quale mi sarei appiattito le natiche per trentatremila
chilometri in ventitré mesi. Mi lessi attentamente, per prima cosa,
il libretto Uso & Manutenzione dove, oltre ad imparare dell'esistenza
di cose che mai avrei potuto sospettare che esistessero -e meno che mai
potessero rompersi od avariarsi- trovai subito, nella prima pagina, le
norme di comportamento: indossare sempre il casco ed allacciarlo sempre,
rispettare la natura, vestirsi sempre completamente (maniche e pantaloni
lunghi e guanti) e, sopratutto: "Il motociclista deve sempre guidare
in difesa".
Sì, perché uno, in macchina, se arriva all'incrocio di una
strada che ha lo stop, per esempio, e vede un'auto che rallenta, è
autorizzato a presumere che questa si fermi; alla peggio... sono cavoli
dell'assicurazione.
In moto, no! Bisogna cercare di prevenire il comportamento degli altri
utenti del traffico, anche i più cretini (riferito sia ai comportamenti
che agli utenti!).
Perché in macchina la gente chiacchiera, ascolta lo stereo, chiacchiera
col telefonino, legge gli sms, ha i vetri appannati, dormicchia, di incavola,
leggiucchia il giornale, si mette le dita nel naso, guarda l'ora, sbadiglia,
si annoia, sbaglia i calcoli dei tempi e/o delle distanze -tanto "ci"
ha l'assicurazione!-; insomma, fa tutto meno che cercar di capire cosa
sta per combinare (e fa meno che nulla per evitarlo!). In moto, un tamponamento
che non ammaccherebbe neppure il paraurti cromato di una vecchia giardinetta,
ha ottime probabilità di farti finire in terra: se sei fortunato,
ti rialzi solo con qualche livido ed un sano furore omicida...
Tornando alle mie prime esperienze di motociclista, ricordo due emozioni:
la prima fu quando, perfezionata la parte burocratica dell'acquisto, mi
misi per la prima volta in sella: il mio meccanico mi spiegò pazientemente
la posizione dei vari comandi (passare dai tre pedali ed il gruppo-comandi
intorno al volante di un'auto ai vari pulsanti, interruttori, leve e pedali
sparpagliati sul manubrio e accanto al motore non è una cosa poi
così immediata!) e concluse l'illustrazione (mentre una scritta
lampeggiava psichedelica nella mia mente: non ho capito e non ricorderò
NULLA!!!) spiegandomi che, nel cambio a pedale sulla sinistra, il folle
è al centro, la prima è in alto e le altre quattro marce
in basso. Sfidai la sorte e premetti il pulsante di accensione del motore:
lui mi guardava con amichevole e perplessa curiosità; decidi di
affrontare la sorte: tirai la leva della frizione e alzai il pedale del
cambio finchè un attutito "clak" mi fece capire che la
marcia era entrata.
Allora, con la cautela tipica di chi trasporta nitroglicerina, decisi
di allentare la frizione dando al contempo gas; facendo così arrivai
al momento in cui la moto si mosse; allora mollai del tutto la frizione
ed accelerai, ascoltando il rombo sommesso del motore e spiando la lancetta
del contagiri che scalava il quadrante sempre più avvicinandosi
alla tacca rossa del fuorigiri.
Il mezzo si muoveva, era equilibrato e stabile ed il motore stava cominciando
a far capire al mio orecchio -allenato da una ventina di anni da automobilista-
che avrebbe gradito una marcia più alta: ricordo che pensai: "la
prima l'ho capita; adesso proviamo le altre!". Così tirai
d nuovo la leva della frizione, pestai sul cambio, mollai la frizione
e la moto ebbe uno scossone in avanti, ma ormai ero motociclista!!!
La seconda emozione fu quella che provai la prima volta che seppi di aver
oltrepassato il confine della provincia, trovandomi -addirittura!- in
Piemonte... So che è una sciocchezza romantica, ma capii di essere,
finalmente, libero.
Quell'inverno, particolarmente mite, sfruttai molto la mia motocicletta
per esplorare Genova e dintorni, acquisendo anche quel giusto grado di
confidenza con il mezzo meccanico.
Le rare giornate di brutto tempo -quando ovviamente ero libero da impegni
lavorativi- lo utilizzavo, come mio solito, in compagnia di qualche buona
lettura.
Dovete sapere che mi è sempre piaciuto leggere (ho una biblioteca
personale così ampia da averne dovuto... decentrare una buona parte
dei volumi in scatoloni, provvisoriamente parcheggiati in ventilate cantine
ed asciutti box di conoscenti) ed amo anche, tempo permettendo, rileggere
i libri: senza più l'ansia per i colpi di scena della trama, che
riesco a ricordare per grandi linee, posso concentrarmi sullo stile, sulle
descrizioni, sullo spessore dei vari personaggi.
Un giorno piovoso di fine aprile, mi capitò di rileggere Sette
uomini all'alba, la ricostruzione fatta da Alan Burgess dell'attentato
al generale delle SS Reinhard Heidrich (Reichprotector di Moravia e Boemia
durante l'occupazione nazista della Cecoslovacchia), messo in atto a Praga
da resistenti ceki con la supervisione e l'assistenza dei servizi segreti
britannici.
Oltre a soddisfare il mio amore per la Storia (recente), il libro mi aveva
incuriosito su questa remota città, che avevo sempre sentito definire
meravigliosa, e mi aveva preso... il prurito di vedere di persona quei
luoghi (così presenti alla mia mente attraverso le descrizioni
e le fotografie), conoscere quelle genti (artefici, l'anno precedente;
della cosiddetta Rivoluzione di Velluto, la più incruenta caduta
di un regime comunista dell'Est), vedere la mitica Piazza San Venceslao,
affrontare l'avventura di andare in un paese estero, all'Est, di cui non
parlo la lingua, incontrando abitudini diverse dalle nostre, mangiando
cose dal nome impronunziabile e dall'aspetto poco rassicurantemente esotico...
E poi, sopratutto: la Sfida! La sfida contro il mio destino, che parla
di infortuni piccoli e grandi, contro quel frusciare del mantello della
Grande Mietitrice che percepivo ogni volta che guardavo la Rossa; la sfida
di quei milletrecento chilometri da solo, in sella, per unire Genova a
Monaco di Baviera, a Pilsen, a Praga, con la sottile, impalpabile linea
tracciata dai copertoni della mia moto sulle strade di una bella fetta
d'Europa.
Verificai il passaporto, mi procurai gli indirizzi dell'Assistenza Honda
in Germania ed Austria, feci revisionare la Rossa, comprai alcuni attrezzi,
un pò di pezzi di ricambio, l'olio di scorta, le cartine stradali
necessarie ed alla fine, all'urlo -romanticamente eroico quanto decisamente
eccessivo- di "O Praga o morte!", partii la mattina del diciotto
agosto.
Prima tappa (viaggiavo tranquillo, senza l'assillo di prenotazioni o di
rigide tabelle di marcia): Brixen (Bressanone per gli italiofoni!); seconda
tappa: Monaco, con l'affannosa ricerca di una camera in una città
invasa dai visitatori di una fiera, per un esborso molto, dannatamente
troppo prossimo ai cento marchi. Terza: Praga!
Questo viaggio, oltre che sulle strade d'Europa, era diventato anche un
inatteso viaggio dentro me stesso. Immaginatevi sulle lunghe monotone
autostrade padane e tedesche, in moto, da solo, senza lo stereo da ascoltare,
senza il finestrino da alzare ed abbassare ritualmente, senza lo schienale
del passeggero sul quale appoggiare il braccio, senza nient'altro da fare
che guardarsi intorno, immersi nel paesaggio da protagonisti, senza esserne
separati dal vetro e dalla lamiera dell'abitacolo di un'auto, spiando
con ansioso interesse il movimento delle nubi temporalesche per cercare
di capire se saresti restato asciutto e se ti saresti bagnato.
In quelle condizioni, con un piccolo, remoto cantuccio del cervello impegnato
dai rari ma familiari problemi legati alla conduzione del mezzo, con il
costante e rassicurante rombo regolare del motore (attutito dal casco),
la mente gira liberamente, si lambicca, fruga nella memoria e ripropone
volti, situazioni, frammenti di avvenimenti e, carognamente, anche quelle
domande che, affacciandosi ansiose per una risposta, sono sempre state
respinte nelle più remote sinapsi della materia grigia con un apparentemente
annoiato, ma molto comodo, "poi ci penso, con calma".
Lì, in quel lì ubiquo, in continuo movimento sulle linee
gialle simboleggianti le autostrade sulla carta d'Europa, in quel luogo
statico (così statico da farti furiosamente stiracchiare ad ogni
occasione) e mobile così tanto da farti sfrecciare l'asfalto della
strada a cento chilometri all'ora ad appena una spanna dalla suola delle
tue scarpe, la calma c'è, il tempo anche ed allora: quale migliore
occasione per cominciare ad analizzare la domanda, a rivoltarla, a smontarla,
a provare ad adattarla a qualche risposta, fino ad essere squassato dalla
certezza: ho capito!
In virtù di questa auto-analisi, posso tranquillamente affermare
che, da Praga (ed è stata ininfluente la destinazione, poteva andare
lo stesso bene Busalla(*) come Bombay) è tornata una persona diversa
da quella che era partita solo quindici giorni prima; forse, perfino un
pò migliore...
Dopo la mitica Rossa -che sfruttai ben oltre le previsioni del signor
Honda!- cercai un'altra moto, più adeguata a muovere la mia non
piccola massa, pensando ad un 350 cc, ma il mio meccanico mi fece capire
che era meglio un 650 cc: non usandolo sempre ai limiti, come il piccolo
motore di una 200 od anche 350 cc, avrei ridotto l'affaticamento e l'usura
del mezzo.
Fu così che mi trovai proprietario di un Dominator Honda, moto
che pesava un paio di quintali ma, grazie alle mie lunghe gambe, abbastanza
maneggevole anche nel traffico urbano.
Cinquantamila chilometri più tardi, capii che era giunto il momento
di sostituirla; progetto che realizzai con la valida complicità
del mio meccanico e procurandomi un altro "Domi".
Era una buona "macchina", ma in un lungo viaggio estivo -in
due, con bagagli essenziali ma pur sempre per una 15na di giorni stipati
nei tre bauletti esterni- aveva mostrato i limiti del monocilindrico:
le vibrazioni ed il poco spazio per sgranchirsi sulla sella avevano sfinito
me e la mia passeggera in una tratta di poco più di 200 chilometri,
tra Messina e Palermo.
Così cominciai a manifestare il mio interesse per un altro enduro
Honda: il Transalp.
Per una serie di fortunate combinazioni, ne trovai uno -sempre rigorosamente
usato!- in ottime condizioni: dopo averne fatto verificare le condizioni
da Gian, il mio mitico meccanico, mi trovai così entusiasta proprietario
di questo ottimo mezzo, bicilindrico e raffreddato ad acqua. Il peso era
salito di un'altra trentina di chili, ma la macchina era veramente notevole.
Circa un anno dopo, nelle stesse condizioni vacanziere di viaggio dell'incubo
Messina-Palermo, io e la mia passeggera abbiamo affrontato una tratta
di 360 chilometri (Villasimius-Cagliari-Olbia), arrivando appena un po'
stanchi
Purtroppo, però, gli anni passano e con gli anni arrivano gli acciacchi:
il mio ginocchio sinistro, reduce di mille avventure e di diverse "messe
a punto" in sala operatoria, mi mandava vibranti e dolorose proteste
per quanto poco gradisse che usassi la moto anche nel freddo e nella pioggia
dell'inverno.
Così, con la morte nel cuore, decisi alla fine del 1998 di radiare
il Transalp, passando ad uno scooterone, un Foresight Honda.
Il mio prepotente ginocchio, adesso, mi lascia in pace, ma quanta voglia
quando, nelle belle giornate, ne vedo uno fermo ad un semaforo!
Counque, trovo che affidare la propria sopravvivenza ad un mezzo meccanico
instabile e delicato come una moto, sia un'ottima palestra per l'attenzione,
l'accuratezza e la manualità.
In auto, si lasciano trascorrere ere geologiche tra due controlli della
pressione gomme, ed un Pliocene intero tra un controllo dell'olio ed il
successivo. In moto è tutto diverso: una gomma con la pressione
non regolare od eccessivamente usurata ti può far disastrosamente
cambiare traiettoria in curva; un motore -senz'olio- che grippa e si blocca
di colpo ti può far arrivare solo all'ospedale, non potendo più
governare il mezzo.
E la tensione della catena, l'usura di corona e pignone, lo spessore delle
pastiglie dei freni, il chilometraggio dall'ultimo rifornimento di benzina
(le moto nate prima del '95 sono, generalmente, prive di indicatore di
livello del carburante...), la funzionalità delle luci, il serraggio
di viti e bulloni, il peso e la distribuzione del carico, il colore e
la grana (cioè l'umidità e l'aderenza) dell'asfalto che
sta per sfilare sotto la nostra moto, la presenza di rappezzi o tombini
o segnaletiche orizzontali (scivolosissime, se bagnate!); e le macchie
d'olio, di carburante, la presenza di sabbia, ghiaietto, sale, foglie:
tutte cose che, se si ambisce a diventare un vecchio motociclista, bisogna
sempre tener d'occhio, prima o durante il viaggio.
Muoversi con un motoveicolo può essere, oltre che molto comodo
nel traffico urbano, un'esperienza piacevole, persino esaltante, a volte,
ma non bisogna mai dimenticarsi che il casco serve, sopratutto, a difendere
un cervello...
(*) Considerata anche l'orrenda situazione del
fondo stradale genovese, che sarebbe stato drammaticamente peggiorato,
lì a poco, dai mitici cantieri della mitica Expo Colombiana (che
avrebbero miticamente sbudellato Genova e l'avrebbero rivoltata come un
calzino, ovviamente mitico, che diamine!), questa, a tutta prima, non
sembrava poi una scelta così illogica!
(**) Non vi spiego dov'è Bombay per non
insultare la vostra favolosa cultura. Busalla, invece, è una ridente
località a pochi chilometri da Genova, appena oltre lo spartiacque
degli Appennini, subito dietro il Passo dei Giovi.
P.S. Non mi è chiaro perchè si
usa dire ridente località, ma chi sono io per sconvolgere le prassi
consolidate? Comunque, non riesco a trovare un qualsiasi motivo perchè
Busalla sia poi così ridente; forse, che so, soffrirà il
solletico...
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